Inaugurazione - Di bianche spine

F'ART spazio per le arti visive inaugura la sua attività con l'evento
 "Di bianche spine" di Donatella Giagnacovo.
Percorso espositivo di riflessione ed indagine sulle realtà femminili emotive e relazionali.
Lo spazio si propone come opportunità dialettica nell'ambito delle esperienze artistiche praticate, laboratoriali e di ricerca.
Vernissage giovedì 19 maggio 2022 ore 17.30.
Via Francesco Di Paola 13 L 'Aquila.
Di bianche spine a cura di Angela Ciano
dal 19.05.2022 al 28.05.2022
Apertura al pubblico 16.00/ 20.00
Ingresso Gratuito










A cura di Angela Ciano
Bianco = purezza – luminosità - energia - speranza. Bianco = vita.

Più che per gli altri colori, pensare al bianco è pensare ad una serie di aggettivi che rimandano ad altro e oltre il semplice effetto cromatico. Per il padre dell’astrattismo Wassilly Kandisky il bianco è dato dalla somma di tutti i colori dell’iride che si annullano in esso. È come un muro di silenzio assoluto, dove non percepiamo emozioni, un colore paragonabile a un non – suono. Ma è proprio questa neutralità che lo rende ricco di energia potenziale da spendere per il futuro; è proprio questo suo essere pausa tra una battuta e l’altra, nell’esecuzione musicale per esempio, ad essere preludio di altri suoni e quindi di altra energia, di altra vita. Quanto di più vicino e simbiotico c’è con l’idea più intrinseca e vera della donna. L’unica in grado di dare nuova vita. 
Per questo il bianco è il colore della donna, del suo viaggio nella condizione umana ancora oggi irto di spine ma anche di continue rinascite. 
“… di bianche spine” è il titolo dell’installazione artistica di Donatella Giagnacovo …. che è un viaggio – riflessione sulla condizione della figura femminile nel terzo millennio. In un periodo in cui alcuni stereotipi sembrerebbero superati, il potenziale comunicativo del gesto artistico di una donna li fa riaffiorare con tutta la loro urgenza e drammaticità. E non si tratta solo di un nuovo modo di pensare alle forme di violenza più tragiche, che troppo spesso sfociano nella morte e che pure hanno un loro portato necessario. Nella sua ultima ricerca Donatella Giagnacovo non si ferma solo a questo, con la sua sensibilità di artista e donna, di moglie, madre ed educatrice, scava in profondità cercando di far riaffiorare la condizione vera in cui si trova a vivere ogni giorno la donna del terzo millennio. “L’arte come evento e azione – scrive Gianluigi Simone sulla Giagnacovo – che si inserisce nella quotidianità, senza separazione tra spazio estetico e spazio sociale, tra mondo reale e dimensione artistica”. Nascono così opere che in un’apparente leggerezza di forma e materia “indagano il mondo femminile con un lessico narrativo che ha in comune la scelta del bianco ma non come resa al colore, bensì come necessità: il bianco come luce per illuminare le ombre e le oscure proiezioni che si riflettono sull’essere donna, il bianco di cui si impregna la materia e che da essa arretra per lasciare il posto al valore espressivo della forma”. Ed allora temi come la donna oggetto, la sposa bambina, la donna succube o stereotipo di bellezza ma non intelligenza, la donna violentata, aggredita ed infine trucidata tornano di un’urgenza che prende allo stomaco guardando le opere di Donatella Giagnacovo. Opere che attraggono lo sguardo per la loro immediata leggerezza e per il loro nitore; ma che al tempo stesso lo inchiodano alla riflessione e alla presa di coscienza. Una dialettica continua in cui il pensiero/gesto dell’artista si serve di materiali evanescenti e diafani: veli, pizzi, trine, nastri, fiori, peluche, piume e di quelle iconografie che fanno parte del mondo femminile fin dalla nascita. Ma esse, attraversate dal pensiero e dalla sensibilità dell’artista, perdono la loro forma sterile trasformandosi in strumento in grado di produrre senso, di generare un pensiero nuovo. Nascono così la valigia di peluche o il vestito della sposa bambina realizzati in cemento, le scarpe solo apparentemente vezzose, tempestate di spilli e immerse anch’esse, in una colata di cemento; si materializza così in tutta la sua ingombrante presenza il vestito di velo trasparente, desiderio di chissà quali promesse, che una miriade di spilli al posto delle cuciture lo rendono un oggetto spettrale simbolo di ancestrali soprusi. E poi ci sono i busti/corazza e le maschere/ prigione in plastica trasparente, in garza … oggetti leggeri ed impalpabili … depurati fino all’astrazione e realizzati con materiale di recupero che, in un rimando ideale al ready made duchampiano, sottolineano la loro presenza ingombrante, diventando attraverso il fare artistico, sinonimi di gabbie ed involucri in cui da sempre sono costretti il corpo e l’anima di una donna. Non tutto è perduto però “…di bianche spine” lancia anche un messaggio verso il futuro e alle future generazioni. E lo fa con oggetti apparentemente non sense. Sono le opere/ libri, anche queste leggere e immerse nella dialettica materia –forma, immagini ambigue ma anche positive perché invitano a scrivere nuove pagine. Invitano l’essere umano, donna o uomo che sia, a ridisegnare il suo ruolo nel rispetto delle prerogative e dell’essenza di ognuno. Ecco credo sia proprio questa la riflessione finale di Donatella Giagnacovo sulla condizione femminile che, lungi dall’essere quella che tutte/tutti auspichiamo, deve però non rinnegare la purezza del bianco vitale che ogni donna porta con se fin dalla nascita.










 
 Andrea Viviani   linguista, poeta

Chi dice donna / dice danno

E altre amenità, che la gente però dice. E vox populi vox Dei, no? Ma ti pare che la metti al dizionario? E infatti no, il dizionario è cosa seria; poi lo usano i ragazzi, a scuola, quando in dubbio… Ma che immagine ne dai? E non si fa, su... si fa ma non si dice.

E poi è da un po’ che i dizionari quelli seri i proverbi non li mettono… Ma che è, Frate Indovino? Oramai quella è una scienza, e le parole non sono più sono parole ma lessemi e vanno messe, anche, come fossero parole, quelle cose che noialtri viventi insegnanti di parole chiamiamo locuzioni: mal di testa, piè veloce, queste qua. I dizionari quelli seri oramai non li sfogliamo: digitali sono oramai i dizionari, quelli seri, e online li consultiamo o su pennetta. Dizionario, Dizionario prestigioso che sei scienza e il più esteso e anche dell’uso[1] e te ne vanti, mi dici per favore cosa gravita attorno a uomo, se lo cerco, in locuzione? “Certamente! Solo con uomo e di, te le cerco; eccole qua!” [ripulisco un pocolino dalle sigle e lascio solo il senso, o ci si annoia:]

“uomo d'affari u. che gestisce affari economici, commerciali, uomo d'armi soldato, guerriero, uomo d'azione u. che preferisce agire piuttosto che tergiversare o perdersi in vani discorsi, uomo del giorno personalità che ha grande e talora imprevisto risalto nelle cronache giornalistiche della vita culturale, politica, artistica, uomo della strada u. comune, uomo delle caverne u. preistorico | u. molto rozzo, uomo di chiesa ecclesiastico, uomo di corte cortigiano | giullare, buffone, uomo di Dio u. ispirato da Dio | estens., u. religioso e devoto”

E tante altre (tante per davvero) cose belle m’ha trovato (tranne forse, come sopra, le caverne e poco altro); e se invece cerco donna e donna di, cosa succede?

L’imbarazzo della scelta:

“donna di casa casalinga | donna che ama [che ama… che ama! Sublime arroganza maschile…] badare alla casa e alla famiglia, donna di cucina cuoca, donna di giro prostituta, donna di governo domestica, governante, donna di malaffare prostituta, donna di mondo 1 d. che frequenta ambienti mondani ed è abituata alla vita di società 2 prostituta, donna di partito prostituta, donna di piacere prostituta, donna di servizio collaboratrice domestica, cameriera, donna di strada prostituta, donna di vita prostituta”

Continuiamo? Lo schema è quello: prostituta, colf, casalinga, prostituta, domestica, prostituta, prostituta, prostituta, prostituta... ad libitum (e per dozzine).

I paralleli, poi… di quelli belli, come con strada: se maschio, u. comune; se femmina… puttana.

Sì, ci sono cose cool attorno a donna; il danno è che sono quattro.
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[1] Tullio De Mauro (1999), Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., Utet: Torino, voll. VII e VIII, 2003 e 2008 (consultato nella chiave usb allegata al vol. VIII).




 Luisa Nardecchia    elzevirista 
"Le parole sono importanti". La sequenza di Palombella Rossa mi torna sempre in mente, quando arriva l’otto marzo. Troppe parole si mescolano e fanno confusione: io darei un taglio specifico a questo giorno, sull’onda delle suggestioni suscitate dalle opere di Donatella.

In queste rappresentazioni di volti femminili non c’è alcuna guerra, vi si legge piuttosto una silenziosa narrazione di sé stesse: sembrerebbe un invito a non cercare responsabilità "altre" dalle proprie, per esempio nell’altro genere, o nella società, nella cultura o nell’educazione. Si tratta di un invito duplice: sentire e riflettere, superando i luoghi comuni. Comunemente si dice, per esempio, che le donne parlano tanto. Forse in tutto quel parlare c’è il tentativo, spesso inutile, di dare il nome corretto a un disagio. Questi volti, invece, bianchi e muti, parlano un’altra lingua, e riescono bene ad esprimere le loro infinite condizioni. Si ha la sensazione, guardandoli, che ci chiedano di interrogarci sulle loro storie, e che queste storie siano situate in un tempo indefinito, tra passato e presente.

Le storie del presente non sono poi così diverse da quelle passate. La donna resta oggi una creatura che ancora nasce e cresce dentro pochissima fiducia. Si sa che è forte, però non abbastanza da non doverla difendere dai lupi. È intelligente, ma mai abbastanza da non doverla proteggere dai furbi. Sa sentire, ma questo suo sentire straordinario a volte offusca il raziocinio.

Certo, alle donne vengono riconosciute nobili e straordinarie doti. “Però”. C’è sempre quel però. E quel però spesso vuol dire non sei capace. Da piccola è un dai, spostati, faccio io. Ma ti confonde questo strano modo, non ha un nome, lo scambi per premura. Poi cresci, e la profezia ti si autoavvera, non sei più capace: per esempio, non sei più capace di uscire da una gabbia, mistificando la parola “amore”. Non sai chiamare le cose con il nome giusto. E le parole sono importanti.

Forse non sai più stare da sola, forse non sai prendere in autonomia le decisioni. Forse non sai cambiare una gomma, né una lampadina, forse non sai pagare una bolletta, non sai gestire i soldi in banca. Troppe volte lo sguardo che una donna legge negli occhi di chi incontra dice: ma questa dove va?... così vestita… così troppa… così poca… così sola…così accompagnata. Questo è comunque il nostro percepito.

Ma se la vita, nel gettare i dadi, un giorno le butta su una strada, quelle stesse donne, dopo il primo momento di disperazione, capiranno che non era vero: sei capace. E quando decidi di fare un passo indietro è perché competere, a volte, ha un prezzo troppo alto, è un gioco a cui non vuoi giocare. Così te ne vai via, gli lasci perfino il tuo pallone. Una rinuncia che pagherai cara, ma la fai, non per “servizio”, né per “dovere” (le parole sono importanti): è perché senti che dovrebbe essere così per tutti.

Le parole che si dicono sulle donne, le più popolari, quelle che girano sui social, dalle donne stesse condivise, spesso sono scritte da uomini. Sono immagini deliziose, per carità, apprezzabili davvero. Ma è un punto di vista che risiede “fuori”. È come scrivere qualcosa sulla fame, senza averla mai provata. Come dover descrive un colore, e non avere mai avuto occhi. Ne risultano sprazzi di realtà: per esempio, che se una donna si mette un vestito a fiori si scorda che ieri le hanno fatto un occhio nero. Che se va dal parrucchiere si scorda dello sguardo da cretino del tizio che al parcheggio le ha guidato la manovra, o del capo che la vede pronta a metterlo in ginocchio con una gravidanza. Un po’ di rossetto, un vestito nuovo, e riparte. Riparte, è vero, ed è questa la forza delle donne, ma questo è un ripartire senza guadagnare mai terreno: è la forza di una bimba che si consola con poco. Quando a sera quella gonna a fiori te la levi, quando al mattino i capelli son tornati quelli lì di sempre, ritorna pure quel sentire disgustoso di non essere capace, o di essere sbagliata.

C’è una parola che potrebbe far giustizia a tutto questo, una parola antica, bellissima, piena di poesia, difficile da spiegare nella sua complessità: e la parola è sorellanza. Sorellanza vuol dire fare fronte comune, solidale. Sorella non lo sei di sangue, sorella non è amica. Una sorella, quando ti sostiene, quando ti aiuta in un momento duro, non ha mai lo sguardo deficiente che sottintende che non sei capace. Lo sguardo di sorella non conosce invidia, si astiene dal giudizio, è quello che tacito ti dice: ce la fai, la mano che ti do è solo per mostrarti “come”.

Quante sorelle abbiamo? Penso alle mie: sorella mi è Stefania, mia mentore lontana ma vicina. Emanuela, quando mi dice eddai, mettiti una cosa colorata! Sorella è Tukkia, che m’insegna a non sapere mai quanti anni abbiamo. Non posso dire tutte le sorelle, di alcune non conosco neanche il nome. Ma voi donne che leggete adesso, fatevi un regalo: contate quelle vostre. E poi dovremmo tutte scegliere ogni giorno di essere sorella di qualcuna, trovare per un’altra un sorriso all’ufficio postale, al supermercato, in un negozio, in banca, a scuola. Lo sguardo bello di sorella non conosce invidia, non sa la gelosia. Ognuno cresce solo se sognato, dicono i poeti. E la sorella ti sogna come in realtà già sei, ma ancora non lo sai.

Ho guardato i volti delle opere di Donatella come se ne fossi sorella. Ne ho sentito il dolore, l’abbandono, la leggerezza, la solitudine, l’allegria. E ho pensato che mi sarebbe piaciuto tradurre tutto questo in parole. Ciò che questi volti sembrano chiedere è che ognuno, a prescindere dai propri cromosomi, si interroghi su sé stesso e sull’altro da sé. Sembrano dire che solo in questo modo il primo genere, quello umano, potrà arrivare ad essere solidale: dal latino “solidus”, che vuol dire intero, completo. Le parole sono importanti.



 Flavia  Massimo  violoncellista e sound designer






























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